MARIA PIA AQUILANTI INGALA

Un aspetto significante dell’arte contemporanea risiede nel suo essere riflesso speculare (a volte anche co-protagonista) delle rapide mutazioni e innovazioni di una realtà complessa e irrevocabilmente globalizzata. Questa consonanza, che rende il fare artistico inclusivo di qualsivoglia sperimentazione, tecnica, strumento, materia o linguaggio, è utile tuttavia a ricondurre l’arte nell’alveo di quella “universalità”, che è tratto essenziale dell’intero percorso storico dell’arte. Già Boccaccio, a suo tempo, incantato dalla pittura di Giotto, la definiva come la raffigurazione più fedele e rigorosa della realtà, comprensibile da tutti e, quindi, “linguaggio universale”. L’odierna “universalità”, che è invece derivazione e mediazione tra visioni artistiche plurali, necessita spesso dell’uso di un prefisso: neo, ante, post, meta, trans e così via. La considerazione è qui utile per porsi “serenamente” di fronte alle composizioni di Maria Pia Aquilanti, senza vagheggiare reminiscenze o apparentamenti tra prefissi e categorie dell’arte contemporanea. Altrove sono riposte le ispirazioni e le suggestioni di Aquilanti, in un universo enigmatico e magico, a tratti misteriosofico, poi reso concreto. Maria Pia è una donna sensibile, intelligente, con una vita feconda di interessi e di inesauribili curiosità. Non si preoccupa di aderire ad una qualche “Accademia dell’avanguardia”, ma si accolla il bagaglio di una vita vissuta con spontaneità e passione. Si avvicina alla pittura dopo la scomparsa del padre e, come spesso accade a seguito di un lutto che ci sorprende da vicino, si aprono le pagine segrete che custodiscono la memoria dei sentimenti e degli affetti, cui occorre dare un senso più intenso e profondo. Così Mariella si avventura in una personale ricerca espressiva, consegnandoci le “tracce” concrete di un dialogo tra il visibile e l’arcano, tra l’immanente e il trascendente. In un confronto tra la natura conservatrice della materia e la memoria dei misteri dell’ultraterreno: “l’istinto di morte” che ha in sé l’implicita tendenza a tornare allo stato di esistenza inorganica, qualcosa di simile all’acqua stagnante che entra in attività solo quando un sasso viene a turbare il suo stato di quiete e che, solo allora, organizza la sua attività per il puro ristabilirsi della
quiete perduta: la riconquista della stabilità interiore! Freud ne era convinto: l’attività artistica è la parte vitale di un impulso esistenziale, un processo motivazionale che, da uno stato di sofferenza emotiva, conduce alla ricerca dell’equilibrio compositivo. Un sistema, insomma, per ricostruire i legami affettivi e l’armonia tra anime che si sono, solo apparentemente, perdute e che si ritrovano nella ricerca di quello stesso equilibrio cui tende l’intero universo. In questa interazione tra pulsione vitale creativa e ricerca dell’equilibrio si attiva la dinamica che genera la produzione artistica di Maria Pia Aquilanti. Così le composizioni dell’artista sono pervase da una religiosità antica e ancestrale, “religiosità” nell’etimo originario di “legame”, che accoglie chi è “partecipe dei sacri misteri della trascendenza”.
Come in Velo bianco: “Felice colui che, fra gli uomini dimoranti sulla terra ha assistito ai riti di Dèmetra…chi non avrà una simile sorte svanirà nella tenebra oscura” (Omero, Inno a Dèmetra).
Così in Luci e ombre: “Beato chi scenda nel ventre della terra, e tali arcani ha veduto: la fine egli sa della vita, sa l’inizio elargito da Giove” (Pindaro, frammento 64).
Possiamo seguire i sentieri che conducono ai campi Elisi in Terre lontane: … “ubi quiescunt heroes” (dove riposano gli eroi cari agli dei) “là è facilissima la vita degli uomini, non c’è tempesta di neve né rigido inverno di pioggia, ma sempre l’oceano manda soffi di Zefiro che spira sonoro e rianima gli uomini…” (Odissea, libro IV).
E poi, immersi nei Prati: “…ogni felicità lì fiorisce in rigoglio/ E per la terra amabile odore si sparge/ perenne di mille aromi, profusi/ Sull’altare dei numi nella fiamma che brilla lontano (Pindaro, Lamentazioni 58).
Saremo infine, noi stessi, parte del linguaggio:
“Udendo poche note, io che esercito l’arte
con una lingua mai pigra,
sono acceso a quel suono
come il delfino, che muova
amabile un’aria di flauti
nell’ampio Oceano senz’onda”
(Pindaro, frammento 66).

Paolo Frongia

Un aspetto significante dell’arte contemporanea risiede nel suo essere riflesso speculare (a volte anche co-protagonista) delle rapide mutazioni e innovazioni di una realtà complessa e irrevocabilmente globalizzata. Questa consonanza, che rende il fare artistico inclusivo di qualsivoglia sperimentazione, tecnica, strumento, materia o linguaggio, è utile tuttavia a ricondurre l’arte nell’alveo di quella “universalità”, che è tratto essenziale dell’intero percorso storico dell’arte. Già Boccaccio, a suo tempo, incantato dalla pittura di Giotto, la definiva come la raffigurazione più fedele e rigorosa della realtà, comprensibile da tutti e, quindi, “linguaggio universale”. L’odierna “universalità”, che è invece derivazione e mediazione tra visioni artistiche plurali, necessita spesso dell’uso di un prefisso: neo, ante, post, meta, trans e così via. La considerazione è qui utile per porsi “serenamente” di fronte alle composizioni di Maria Pia Aquilanti, senza vagheggiare reminiscenze o apparentamenti tra prefissi e categorie dell’arte contemporanea. Altrove sono riposte le ispirazioni e le suggestioni di Aquilanti, in un universo enigmatico e magico, a tratti misteriosofico, poi reso concreto. Maria Pia è una donna sensibile, intelligente, con una vita feconda di interessi e di inesauribili curiosità. Non si preoccupa di aderire ad una qualche “Accademia dell’avanguardia”, ma si accolla il bagaglio di una vita vissuta con spontaneità e passione. Si avvicina alla pittura dopo la scomparsa del padre e, come spesso accade a seguito di un lutto che ci sorprende da vicino, si aprono le pagine segrete che custodiscono la memoria dei sentimenti e degli affetti, cui occorre dare un senso più intenso e profondo. Così Mariella si avventura in una personale ricerca espressiva, consegnandoci le “tracce” concrete di un dialogo tra il visibile e l’arcano, tra l’immanente e il trascendente. In un confronto tra la natura conservatrice della materia e la memoria dei misteri dell’ultraterreno: “l’istinto di morte” che ha in sé l’implicita tendenza a tornare allo stato di esistenza inorganica, qualcosa di simile all’acqua stagnante che entra in attività solo quando un sasso viene a turbare il suo stato di quiete e che, solo allora, organizza la sua attività per il puro ristabilirsi della
quiete perduta: la riconquista della stabilità interiore! Freud ne era convinto: l’attività artistica è la parte vitale di un impulso esistenziale, un processo motivazionale che, da uno stato di sofferenza emotiva, conduce alla ricerca dell’equilibrio compositivo. Un sistema, insomma, per ricostruire i legami affettivi e l’armonia tra anime che si sono, solo apparentemente, perdute e che si ritrovano nella ricerca di quello stesso equilibrio cui tende l’intero universo. In questa interazione tra pulsione vitale creativa e ricerca dell’equilibrio si attiva la dinamica che genera la produzione artistica di Maria Pia Aquilanti. Così le composizioni dell’artista sono pervase da una religiosità antica e ancestrale, “religiosità” nell’etimo originario di “legame”, che accoglie chi è “partecipe dei sacri misteri della trascendenza”.
Come in Velo bianco: “Felice colui che, fra gli uomini dimoranti sulla terra ha assistito ai riti di Dèmetra…chi non avrà una simile sorte svanirà nella tenebra oscura” (Omero, Inno a Dèmetra).
Così in Luci e ombre: “Beato chi scenda nel ventre della terra, e tali arcani ha veduto: la fine egli sa della vita, sa l’inizio elargito da Giove” (Pindaro, frammento 64).
Possiamo seguire i sentieri che conducono ai campi Elisi in Terre lontane: … “ubi quiescunt heroes” (dove riposano gli eroi cari agli dei) “là è facilissima la vita degli uomini, non c’è tempesta di neve né rigido inverno di pioggia, ma sempre l’oceano manda soffi di Zefiro che spira sonoro e rianima gli uomini…” (Odissea, libro IV).
E poi, immersi nei Prati: “…ogni felicità lì fiorisce in rigoglio/ E per la terra amabile odore si sparge/ perenne di mille aromi, profusi/ Sull’altare dei numi nella fiamma che brilla lontano (Pindaro, Lamentazioni 58).
Saremo infine, noi stessi, parte del linguaggio:
“Udendo poche note, io che esercito l’arte
con una lingua mai pigra,
sono acceso a quel suono
come il delfino, che muova
amabile un’aria di flauti
nell’ampio Oceano senz’onda”
(Pindaro, frammento 66).

Paolo Frongia

 

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