Dino Buffagni - Sogni/Miraggi

4-24 dicembre 2021

Continuando a guardare …

È sorprendente scorrere le date dei quadri di questa mostra: sembrano tutti successivi a quella che Lucio Mazzi e io avemmo modo di presentare ormai diversi anni fa. Nel loro insieme sembrano indicare un’evoluzione, una di quelle che inevitabilmente percorre la vita, anche fisica, di un pittore, e non solo la sua vita artistica.
Un’evoluzione tecnica c’è ed è evidente. Siamo tra quadri ad olio, copia unica, e altri a tecnica mista, prodotti in piccola serie.

In quei quadri la costante era la costruzione di situazioni, il cui sviluppo immaginario si apriva al di fuori del quadro stesso. Storie possibili che gli oggetti rappresentati suggerivano attraverso le combinazioni del loro accostamento, alludendo e ammiccando all’osservatore, un po’ palesemente e molto no, ma coinvolgendolo sempre.

Qui le cose sembrano stare diversamente: il filo che pare legare l’insieme, in un abbraccio di molti anni, è un effetto di straniamento elaborato in più forme. Se lo si vuole afferrare, si accosti ogni quadro al suo titolo: credo che ogni osservatore ne suggerirebbe uno proprio, diverso da quello che Dino Buffagni ha voluto adottare. Qui si apre la differenza.
Il confronto tra quadro e titolo dà sempre o quasi un effetto di sorpresa (prima spia dello straniamento), che continua nell’osservazione diretta del quadro, spesso costruito per contrapposizione di elementi. Il dato curioso è che, anche quando questo non avviene, lo straniamento non è minore: in Il centro del mondo (2001) l’estrema evidenza iniziale si arricchisce via via che ci si sofferma nell’osservazione, fino a diventare un interrogativo su cosa si stia in effetti vedendo. In questa suggestione lo straniamento è completo.

A volte il passaggio straniante al titolo è moderato, come in Amore impossibile (2003); qui non possiamo che essere d’accordo, tanto è evidente l’accostamento rappresentato, ma in genere non è così. In rari casi è invece esplicita, come voluta, l’ambiguità: di fronte a Le nostre scelte (2018) la presenza di carte bianche è dichiaratamente un vuoto da riempire, e chi vuole si accomodi, inserisca ciò che vuole. La costante in tutti è un coinvolgimento dell’osservatore. Rispetto ai quadri che prima ricordavo, della mostra precedente, che si espandevano fuori di sé in una sorta di sviluppo narrativo, qui la rappresentazione allude non più a una storia, ma a un significato, che è demandato all’osservatore. C’è dunque un dialogo tra l’opera e il fruitore, oggi come allora.
Si tratta però di un messaggio estetico ben diverso, che richiama quel che Victor Segalen scriveva nel suo Saggio sull’esotismo: nell’arte, “si possono distinguere ed opporre tra loro due mondi che sembrano porsi uno di fronte all’altro, in una relazione di causa-effetto, ma di cui pare impossibile afferrare il punto di contatto… da una parte c’è il mondo morale… dall’altra il mondo fisiologico”. Riuscite e a trovare qui, voi osservatori, il punto di contatto tra l’opera e il suo titolo?
E poi, fra i significati, c’è un’ironia visiva, altra forma di straniamento, altra forma di mancanza di contatto. Non sembra ironica la prospettiva di Paradiso – la porta sul retro (1993), che ci fa guardare da un punto che non c’è?

Paolo Pullega

Continuando a guardare … È sorprendente scorrere le date dei quadri di questa mostra: sembrano tutti successivi a quella che Lucio Mazzi e io avemmo modo di presentare ormai diversi anni fa. Nel loro insieme sembrano indicare un’evoluzione, una di quelle che inevitabilmente percorre la vita, anche fisica, di un pittore, e non solo la sua vita artistica. Un’evoluzione tecnica c’è ed è evidente. Siamo tra quadri ad olio, copia unica, e altri a tecnica mista, prodotti in piccola serie.   In quei quadri la costante era la costruzione di situazioni, il cui sviluppo immaginario si apriva al di fuori del quadro stesso. Storie possibili che gli oggetti rappresentati suggerivano attraverso le combinazioni del loro accostamento, alludendo e ammiccando all’osservatore, un po’ palesemente e molto no, ma coinvolgendolo sempre.   Qui le cose sembrano stare diversamente: il filo che pare legare  l’insieme, in un abbraccio di molti anni, è un effetto di straniamento elaborato in più forme. Se lo si vuole afferrare, si accosti ogni quadro al suo titolo: credo che ogni osservatore ne suggerirebbe uno proprio, diverso da quello che Dino Buffagni ha voluto  adottare. Qui si apre la differenza. Il confronto tra quadro e titolo dà sempre o quasi un effetto di sorpresa (prima spia dello straniamento), che continua nell’osservazione diretta del quadro, spesso costruito per contrapposizione di elementi. Il dato curioso è che, anche quando questo non avviene, lo straniamento non è minore: in Il centro del mondo (2001) l’estrema evidenza iniziale si arricchisce via via che ci si sofferma nell’osservazione, fino a diventare un interrogativo su cosa si stia in effetti vedendo. In questa suggestione  lo straniamento è completo.   A volte  il passaggio straniante al titolo è moderato, come in Amore impossibile (2003); qui non possiamo che essere d’accordo, tanto è evidente l’accostamento rappresentato, ma in genere non è così. In rari casi è invece esplicita, come voluta, l’ambiguità: di fronte a Le nostre scelte (2018) la presenza di carte bianche è dichiaratamente un vuoto da riempire, e chi vuole si accomodi, inserisca ciò che vuole. La costante in tutti è un coinvolgimento dell’osservatore. Rispetto ai quadri che prima ricordavo, della mostra precedente, che si espandevano fuori di sé in una sorta di sviluppo narrativo, qui la rappresentazione allude non più a una storia, ma a un significato, che è demandato all’osservatore. C’è dunque un dialogo tra l’opera e il fruitore, oggi come allora. Si tratta però di un messaggio estetico ben diverso, che richiama quel che Victor Segalen scriveva nel suo Saggio sull’esotismo: nell’arte, “si possono distinguere ed opporre tra loro due mondi che sembrano porsi uno di fronte all’altro, in una relazione di causa-effetto, ma di cui pare impossibile afferrare il punto di contatto… da una parte c’è il mondo morale… dall’altra il mondo fisiologico”. Riuscite e a trovare qui, voi osservatori, il punto di contatto tra l’opera e il suo titolo? E poi, fra i significati, c’è un’ironia visiva, altra forma di straniamento, altra forma di mancanza di contatto. Non sembra ironica la prospettiva di Paradiso – la porta sul retro (1993), che ci fa guardare da un punto che non c’è?   Paolo Pullega

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