Giorgio Sannino
Strati - 11 maggio-8 giugno

Il modo in cui Sannino alterna temi figurativi – perlopiù volti – a motivi astratti potrebbe far pensare che almeno una parte della sua opera sia dedicata alla rappresentazione, a ripresentare cioè un certo stato di cose.
Chi vi creda, ne godrà come si gode di un arredo e mancherà di cogliere – mi pare – il gesto fondamentale dell’autore.
Che, se possibile, è quello di mettersi da parte.
Le sue opere sono infatti intente, anzi rapite, assai più che da una rappresentazione, da una manifestazione. Manifestazione della propria matericità, del loro concatenarsi alla trama di quel che c’è, del loro offrire riscatto all’espressione più negletta di tutte: quella del mondo, cui l’osservatore dell’opera partecipa non meno dell’autore. E infatti, quando attraverso un volto si pone il problema del ricordo, Sannino non indulge al ricordo di un volto (ricordo che sarebbe solo suo), e nemmeno ad un volto che ricordi (cui dovrebbe inevitabilmente imporre la propria legge interiore), mettendo piuttosto in scena il volto del ricordo, rinviando cioè a quel modo con cui l’atto stesso del ricordare, impadronendosi di ciascuno di noi, ci irretisce al punto tale da farsi spettro, abitandoci come un essere ulteriore, di cui non disponiamo. E così vale per le materie, che in queste opere affiorano più o meno a caso, a variare le grane della presenza, senza particolari imposizioni da parte dell’autore, il quale semmai si rimette ad esse. Materie che, così affastellate, emergono soprattutto per come si aggrappano all’opera, invitando alla loro presa lo stesso osservatore.
“Sono quadri che amo toccare, materie aggrappate a cui sento di dovermi a mia volta aggrappare – dice Sannino – e vorrei fosse così anche per chi li guarda. Forse è di una presa, forse è di questo che abbiamo bisogno.” Fra mondo e opera, insomma, viene meno ogni soluzione di continuità, perché le opere diventano campi di riarticolazione delle forze del mondo, praticabili anche da chi – stando di fronte al quadro – scopre che starvi di fronte è in realtà impossibile (o quantomeno insensato) e che, semmai, si tratta di saggiarne forze e corpi. Si potrebbe dire, con Dufrenne, che il senso originario è sempre il tatto, di cui la vista non è che una versione a distanza, un toccare imperfetto che invita a farsi più vicini. Ed è proprio così, avvicinandoci a tali superfici non piane, che tutte queste opere – senza distinzione fra temi astratti e temi figurativi – lasciano risuonare il mondo da cui sono prelevate e ci danno per questo l’occasione – tanto rara quanto misteriosa – di ricucire con esso una connivenza perduta.

Edoardo Lucatti

Il modo in cui Sannino alterna temi figurativi – perlopiù volti – a motivi astratti potrebbe far pensare che almeno una parte della sua opera sia dedicata alla rappresentazione, a ripresentare cioè un certo stato di cose. Chi vi creda, ne godrà come si gode di un arredo e mancherà di cogliere – mi pare – il gesto fondamentale dell’autore. Che, se possibile, è quello di mettersi da parte. Le sue opere sono infatti intente, anzi rapite, assai più che da una rappresentazione, da una manifestazione. Manifestazione della propria matericità, del loro concatenarsi alla trama di quel che c’è, del loro offrire riscatto all’espressione più negletta di tutte: quella del mondo, cui l’osservatore dell’opera partecipa non meno dell’autore. E infatti, quando attraverso un volto si pone il problema del ricordo, Sannino non indulge al ricordo di un volto (ricordo che sarebbe solo suo), e nemmeno ad un volto che ricordi (cui dovrebbe inevitabilmente imporre la propria legge interiore), mettendo piuttosto in scena il volto del ricordo, rinviando cioè a quel modo con cui l’atto stesso del ricordare, impadronendosi di ciascuno di noi, ci irretisce al punto tale da farsi spettro, abitandoci come un essere ulteriore, di cui non disponiamo. E così vale per le materie, che in queste opere affiorano più o meno a caso, a variare le grane della presenza, senza particolari imposizioni da parte dell’autore, il quale semmai si rimette ad esse. Materie che, così affastellate, emergono soprattutto per come si aggrappano all’opera, invitando alla loro presa lo stesso osservatore. “Sono quadri che amo toccare, materie aggrappate a cui sento di dovermi a mia volta aggrappare – dice Sannino – e vorrei fosse così anche per chi li guarda. Forse è di una presa, forse è di questo che abbiamo bisogno.” Fra mondo e opera, insomma, viene meno ogni soluzione di continuità, perché le opere diventano campi di riarticolazione delle forze del mondo, praticabili anche da chi – stando di fronte al quadro – scopre che starvi di fronte è in realtà impossibile (o quantomeno insensato) e che, semmai, si tratta di saggiarne forze e corpi. Si potrebbe dire, con Dufrenne, che il senso originario è sempre il tatto, di cui la vista non è che una versione a distanza, un toccare imperfetto che invita a farsi più vicini. Ed è proprio così, avvicinandoci a tali superfici non piane, che tutte queste opere – senza distinzione fra temi astratti e temi figurativi – lasciano risuonare il mondo da cui sono prelevate e ci danno per questo l’occasione – tanto rara quanto misteriosa – di ricucire con esso una connivenza perduta.
Edoardo Lucatti

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